Ho intitolato questo mio contributo “Pensieri sparsi” perché le riflessioni che voglio proporre qui non sono di carattere tecnico né strettamente politico, bensì si allargano forse in un altrove di cui questa revisione non è che lo spunto iniziale, l’occasione, più che il centro, delle mie elucubrazioni.
Credo di potermelo permettere perché ritengo che il votare sì a questo imminente referendum o il votare no, lascerà quasi invariata la realtà.
A fronte della vittoria del sì, più volte è stato annunciato – e a più voci, che l’opera di revisione continuerà; a fronte di una improbabile vittoria del no, la revisione ricomincerà e presumibilmente il punto di partenza sarà comunque l’attuale proposta.
Ritengo sia comunque importante votare per far sentire la propria voce a prescindere dagli esiti, perché la domanda che il referendum ci pone è: chi siamo? O meglio, chi vogliamo essere?
Una comunità professionale che abdica a tale risposta, che non se ne interessa è ai miei occhi una comunità che si dimostra poco interessata a riflettere su se stessa e questo mi pare particolarmente grave per una Professione come la nostra.
La domanda sul “chi siamo” ci è stata posta a suo tempo e abbiamo risposto in un contesto sociale piuttosto diverso da quello attuale, dando una risposta in cui all’epoca la maggior parte di quella comunità si è riconosciuta – pur con alcuni mal di pancia, tanto che al primo referendum sono stati fatti appelli all’astensione e il primo codice non è passato (all’epoca esisteva un quorum da raggiungere, che era prima del 50% più uno degli aventi diritto al voto e poi del 33% più uno che è stato successivamente abolito) si arriva infatti ad avere una ratifica solo nel 1998.
Successivamente il nostro “chi siamo” è stato modificato in base all’introduzione di nuove norme dello Stato cui eravamo soggetti, cosa che anche questa volta sta avvenendo e rispetto alla quale non abbiamo molto margine di scelta.
Tali norme però – e credo che questo sia uno dei punti nodali delle associazioni e di colleghe e colleghi che stanno facendo in queste ore una campagna per il NO al referendum -, discendono da una decisione presa a suo tempo e perseguita con grande perseveranza soprattutto dall’AUPI – ma più in generale dagli organi di governo della professione, che è stata quella di identificarsi e farsi riconoscere dallo Stato e dalla società come professione sanitaria.
La nostra professione da sempre attinge, da una parte, alla medicina e al paradigma scientifico, e dall’altra, a discipline umanistiche che vanno dalla filosofia all’antropologia, dall’arte alla mitologia alle religioni. Queste discipline – che pure hanno dato tanto alla nostra storia e al nostro sguardo sul mondo, al modo con cui guardiamo all’“altro” non sono ben inquadrabili in processi standardizzati, protocolli e linee guida perché si rifanno al paradigma della soggettività.
Nell’idea di sanità vigente nella nostra società sembra però non esserci spazio per tale paradigma che viene vissuto come una minaccia piuttosto che come un arricchimento.
Lo spazio per i dubbi, per la ricerca di risposte diverse ad una domanda posta, per l’ascolto delle opinioni diverse e mi viene da dire in generale per la diversità e dunque per la libertà di scelta, sembra stia andando riducendosi in favore di una omologazione, in favore della ricerca di oggettività, regole costanti, certezze. Sembra vada riducendosi lo spazio per abitare incertezza e complessità.
La risposta alla domanda di cura, malessere o anche solo di dubbio si vuole che sia rapida e univoca, senza margini di incertezza, senza possibilità di errore. Il nostro intervento professionale lo si vuole sempre più simile ad un farmaco, cambia la via di somministrazione, ma ciò che offriamo deve essere standardizzato e agire su determinati recettori, ad uno stesso stimolo deve corrispondere la stessa risposta da parte di ogni professionista.
Credo, alla luce di ciò, che sia chiaro come molti di noi si sentano a disagio in tale contenitore che diventa eccessivamente stretto per una professione che ha venti e più diversi macromodelli di psicoterapia cui fare riferimento e una comunità scientifica frastagliata, poco collegata e talvolta così litigiosa da arrivare persino alle reciproche squalifiche.
Altro elemento di cui è necessario tenere conto è che quando siamo chiamati a rispondere alla domanda sul “chi siamo” dobbiamo avere in mente da una parte che siamo anche professionisti che esercitano in ambiti assai diversi dalla sanità quali la scuola, il mondo giuridico, il mondo del lavoro, dello sport e così via, e dall’altra che ci sono realtà istituzionali che vanno dall’Accademia alle Scuole di psicoterapia alle Società scientifiche alle associazioni di categoria che non sono state chiamate in causa.
Infine, nel “chi siamo” il mio pensiero va agli studenti, agli iscritti all’albo B, ai pensionati, agli psicologi penitenziari, ai dottorandi, ai tirocinanti, agli specializzandi, a chi lavora nelle cooperative e in tutti quegli ambiti considerati sempre un po’ marginali e in cui il rispetto di alcune norme deontologiche si presenta talvolta estremamente complesso.
Alla luce di questa premessa, ritengo che, mentre noi siamo chiamati, attraverso l’obbligatorio strumento referendario, a ratificare il nuovo testo deontologico, i cui fulcri essenziali sono il recepimento di nuove norme, assolutamente doveroso, e l’adeguamento di linguaggio alla questione di genere, altrettanto doveroso, le emozioni sgradevoli che molti sentono (e che si trasformano in oppositività) derivino soprattutto dal processo utilizzato per arrivare al licenziamento di tale prodotto.
Il processo, infatti, ha previsto l’uso di una commissione ristretta di esperti, molto preparati certo, ma forse troppo poco rappresentativi dei numerosi mondi che compongono il nostro universo, affiancati da qualche ulteriore esperto in modo più o meno informale e qualche contributo volontaristico, più o meno audito e preso in considerazione.
Tutto questo, in un mondo che permette anche attraverso l’uso della tecnologia una larga partecipazione, risulta eccessivamente calato dall’alto, rischiando di andare ad accentuare uno scollamento tra i vertici della categoria e la sua base che già emerge largamente ad ogni tornata elettorale in cui l’assenteismo continua tristemente ad essere il vero vincitore.
Concludo dicendo che apprezzo il lavoro svolto dalla Commissione: sono certa si sia impegnata molto per questa revisione, pur avendo costruito, dal mio punto di vista, un prodotto che non può essere all’altezza delle aspettative, e certamente non per demerito dei suoi componenti ma perché si è utilizzato un processo che non avrebbe potuto dare, sempre a mio avviso, risultati molto diversi dagli attuali.
Ritengo dunque che si debba votare Sì a questo referendum perché recepire le norme dello Stato è doveroso, e questa revisione lo fa; e poi perché – come detto in premessa – votare no non avrà particolari effetti concreti se non quello di amareggiare coloro che tanto si sono impegnati tra equilibrismi vari ad aderire con diligenza al loro mandato.
Auspico nel contempo che si possa ripartire rapidamente con una ulteriore revisione che veda un processo sostanzialmente diverso, che apra alla partecipazione di quella base che non venga solo chiamata a votare e ratificare, ma che sia chiamata a partecipare alla revisione, a portare le proprie istanze, a raccontare il proprio “io sono” che vada a comporre un “noi siamo” davvero rappresentativo che faccia sì che il codice deontologico sia la nostra comune fotografia, l’Album di Famiglia che guardiamo con piacere perché esprime tutti quei valori in cui ci riconosciamo e che ci guidano e che sentiamo essere l’essenza della nostra multiforme identità.
Un codice deontologico che non accolga solo i mutamenti normativi, ma anche quelli sociali, che tenga conto dell’impatto dell’intelligenza artificiale, delle piattaforme online, del cambiamento di linguaggi delle nuove generazioni, dell’uso dei social e di come la nostra professione sia inserita in un continuo divenire e che sebbene afferente in parte a paradigmi scientifici di stampo medico se ne differenzi perché l’oggetto del nostro intervento è la relazione ed il nostro mezzo di intervento è la relazione e la relazione non è un oggetto organico su cui intervenire in modo standardizzato ma qualcosa di più complesso.
Noi ci occupiamo di emozioni, di sguardi, di desideri, di pensieri e di linguaggi, e forse è possibile che sia la sanità ad accogliere questa nostra peculiarità e ad esserne arricchita, invece che essere noi ad indossare un vestito che a tratti ci sta troppo stretto; ma affinché ciò possa essere, quel “chi siamo” deve essere costruito con fondamenta condivise ed essere efficacemente comunicato a un mondo in cui noi siamo i diversi; e – come è noto, soprattutto agli psicologi! – c’è sempre un po’ di diffidenza nei confronti del Diverso, salvo poter dimostrare che la diversità e le differenze sono ricchezza.