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Non è scomparso poi da molto Franco Rotelli (16 marzo 2023), lo psichiatra erede storico di Franco Basaglia e che fu con lui protagonista della Riforma (mancata? Incompiuta?) che portò alla chiusura dei “manicomi”.
Ad accompagnarlo nel suo ultimo viaggio su questa terra i suoi più stretti collaboratori, e non vi posso dire quanti altri colleghi, chi ancora in servizio, chi già pensionato, operatori della Salute Mentale, medici, educatori, operatori del sociale, utenti, e tanti tanti giovani.
Kevin, uno dei suoi più stretti collaboratori, piangeva come un bambino sulla mia spalla.
Mi verrebbe da dire che sono venuti tutti, e il mio vissuto, mentre ci si salutava in silenzio in quel piazzale, era che in qualche modo gli stavo dicendo: “Ciao, Franco. E’ stato un onore conoscerti e non potevo non venire a darti l’ultimo saluto, a prescindere da quanto ci siamo conosciuti”.
Su un grande striscione bianco appeso nell’edificio di fronte la scritta a caratteri cubitali: “Franco è vivo e lotta insieme a noi”.
In centinaia abbiamo affollato il piazzale davanti alla Chiesetta del Parco di San Giovanni; ancora adesso che scrivo il cuore e gli occhi mi si gonfiano di commozione, perché quell’uomo era un genio, mi è stato chiaro la prima volta che l’ho sentito parlare.
Anzi, non un semplice genio, bensì un visionario, nel senso più nobile del termine.
Per la psichiatria italiana oltre che triestina è stato un vero pilastro, una riserva inesauribile di Buone Pratiche esemplari, un punto di riferimento di portata elevatissima nel dibattito sanitario.
Ai funerali è stato portato anche Marco Cavallo, il gigantesco cavallo azzurro ideato da Franco Basaglia, simbolo di questo cambiamento di paradigma.
Sotto la sua casa, dei fiori ed un cartello: “Siamo ‘matti’ e hai difeso i nostri sogni. Hai abbandonato le regole in favore dei bisogni. A te …che combattendo le vecchie verità ci hai reso meno matti …perchè matti in libertà. Grazie Franco”. Firmato, I matti di Trieste.
Facciamo un passo indietro nel tempo
Era la primavera 1989 quando per la prima volta entrai nel Parco di San Giovanni a Trieste. Accompagnavo un amico, studente in Psichiatria, che aveva un appuntamento col direttore della Clinica Psichiatrica.
Venivo da un’altra città e fino a quel momento non avevo mai avuto esperienze con la cosiddetta “malattia mentale”, né conoscevo quella zona di Trieste, sede dell’ex-Ospedale Psichiatrico.
Ricordo un luogo fatiscente, con edifici che cadevano a pezzi e povera gente che deambulava, avanti e indietro; avevo l’impressione di essere in un ghetto.
Ricordo che rimasi molto colpita da una signora vestita in modo un po’ “sgangherato”; mi si avvicinò e iniziò a parlarmi come se ci fossimo da sempre conosciute.
Mi disse che le sembravo un’attrice, che cercava di mostrarsi per quello che non ero, un po’ come si fa nei film appunto, in cui si recita un personaggio che non sei tu.
Immaginai ovviamente che doveva essere davvero “matta”, ma dentro di me pensai anche che, pur non avendo “tutte le rotelle a posto”, c’era molto di vero nel suo giudizio.
In effetti a quel tempo non ero molto spontanea e autentica, e cercavo spesso di darmi un tono, mostrandomi così per quello che fingevo di essere.
Oggi, più di trenta (30!) anni dopo, nel parco di San Giovanni, sede centrale dell’Azienda Sanitaria e di tantissime associazioni che operano nel sociale, lo sguardo del visitatore si perde su un immenso parco fiorito.
Il profumo delle rose, delle piante e degli alberi si diffonde ovunque, ed è una gioia per gli occhi e per il cuore camminarci attraverso.
Tutto l’ambiente è molto curato, gli edifici fatiscenti sono stati restaurati e dipinti con colori vivaci; c’è un mucchio di gente che va avanti e indietro, diretta ai vari Dipartimenti, associazioni, oppure al “Posto delle Fragole”, il piccolo bar, a lato della Chiesetta, in cui ci si ritrova a mangiare o bere qualcosa o per qualche incontro di lavoro, mentre nell’aria si sente un po’ di musica, magari quella dell’Accademia della Follia, compagnia di teatro di “matti di mestiere e attori per vocazione”[1].
Proprio davanti alla sede dell’Associazione di Volontariato “Franco Basaglia”, a cui mi sono iscritta anni fa, c’è adesso un giardino enorme, pieno zeppo di rose profumatissime, le “rose di Franco” proprio perché è lui che le ha volute, e un grande tavolo di pietra su cui tanti giovani oggi si fermano a fare due chiacchiere e a fumare – questa sì, che è follia! – una sigaretta.
C’è vita, allegria, “profumo di cuore”.
Non sembra di essere più nel “posto dei matti” di tanti anni fa bensì di vivere in una piccola oasi, in cui spesso è difficile distinguere i “sani” dai “malati” perché tutti interagiscono con tutti, e come esseri umani reciprocamente si trattano.
In quel posto entrai per la prima volta qualche anno fa.
Ne sentivo parlare da tempo delle attività associative, e fu in quell’occasione che ascoltai la mia prima conferenza del “Prof.” Rotelli.
Ricordo che mi trovai davanti ad un enorme tavolo, con un mare di giovani come me mescolati insieme a tanti adulti, e tutti che parlavano, ridevano e scherzavano.
Sul tavolo bibite, patatine, libri e fogli.
Solo molto tempo dopo scoprì che molte di quelle persone erano gli utenti dei servizi di psichiatria del luogo.
In effetti proprio questa è la caratteristica principale dei servizi di salute mentale a Trieste: la centralità della persona e la conseguente caduta dello stigma sociale del paziente psichiatrico.
L’Associazione di Volontariato “Franco Basaglia” nacque nel 1993 col fine – così si legge nello Statuto – di promuovere e incrementare un volontariato che si proponga di offrire servizi, ambiti ed iniziative di aiuto e sostegno, specifiche abilità e capacità professionali, con progetti e azioni di solidarietà sociale a favore di persone provenienti dall’area dello svantaggio e dell’emarginazione (portatori di handicap, persone in età, persone portatrici di sofferenze psichica, immigrati, ecc.).
Nella lotta allo stigma e alle forme di esclusione, essa si propone di valorizzare le diversità dei soggetti e delle culture, le forme di aggregazione dei giovani sulla base di bisogni specifici e di specifiche forme di espressione.
L’associazione organizza inoltre laboratori artistici, progetti e interventi a sostegno della salute per i gruppi a rischio, attività di accompagnamento e di abilitazione alla vita quotidiana, attività culturali e di formazione rivolte ai volontari.
Questa associazione è una delle tante che operano nel Parco di San Giovanni.
Credo che possa essere utile non solo per gli addetti ai lavori raccontare qualcosa di quello che è avvenuto e sta avvenendo da queste parti perché penso ci sia parecchio ancora da imparare da questi luoghi.
Per farlo, dovrò ripercorrere in estrema sintesi e con inevitabile approssimazione alcuni dei passaggi storici decisivi per comprendere come siamo arrivati al presente.
Basaglia, i Basagliani e il modello triestino dell’antipsichiatria
Tutto è cominciato con lui. Il suo nome è mitologico per chi si occupa di salute mentale.
E questo non è detto sia sempre un bene, soprattutto se si vuole apprezzare il senso più autentico della sua opera.
Comunque Franco Basaglia nasce nel 1924 a Venezia.
Psichiatra e neurologo, studia a Padova, laureandosi in medicina nel 1949 e specializzandosi in malattie nervose presso la clinica neuropsichiatrica nel 1953.
Nel corso della sua formazione conosce l’esistenzialismo di Jean Paul Sartre e lo fa proprio.
All’epoca la cultura psichiatrica era imbevuta di un organicismo che risaliva alle concezioni di Lombroso sulle anomalie somatiche e costituzionali dei soggetti devianti.
Nel 1958 Basaglia diventa docente di Psichiatria all’Università di Padova e si troverà a confliggere con l’ideologia imperante a causa delle sue posizioni giudicate eccessivamente rivoluzionarie sul tema della cosiddetta ‘malattia mentale’.
Nel 1961 lascia l’insegnamento e si trasferisce a Gorizia per diventare Direttore del suo Ospedale Psichiatrico. Sposa la Collega Franca Ongaro e pubblica molto.
Ben presto entra in contrasto con la concezione “custodialista” dell’Istituto ospedaliero che si rappresentava i pazienti psichiatrici come soggetti da nascondere alla vista della società, individui da tenere sotto controllo, da contenere e da sedare.
Negando ai malati psichiatrici la loro dignità di persone sofferenti, s’infliggevano loro trattamenti aberranti e disumanizzanti.
Basaglia parte dalle teorie psicoanalitiche di Freud per modificare radicalmente l’approccio alla cura che viene ri-fondata e fondata sul dialogo, la vicinanza emotiva, il sostegno, l’empatia (era ancora di là da venire la scoperta dei neuroni-specchio!).
Il lavoro clinico e terapeutico vuole così restituire alle persone maggiore dignità e il diritto alla cura, stimolando e incoraggiando l’approccio relazionale fra paziente e personale sanitario.
Basaglia decide di eliminare la terapia elettroconvulsiva (TEC) nel trattamento dei pazienti psichiatrici.
E’ noto che la TEC “non è da considerarsi come parte della tradizione curativa dell’energia elettrica, ma basa la sua efficacia su quella degli attacchi epilettici” (Brugnoli et al., 2013, 2017).
La TEC infatti “non è una metodologia originale, bensì la continuazione della terapia convulsiva impiegata nel 1934 da Ladislas Meduna” e gli stessi “sviluppatori della TEC, gli psichiatri italiani Ugo Cerletti e Lucio Bini, si consideravano come parte della tradizione della terapia convulsiva” (Brugnoli, cit.).
All’epoca la TEC era utilizzata peraltro non solo in Italia come strumento generalizzato per il contenimento del paziente; la scelta di Basaglia consentiva la ri-umanizzazione del paziente psichiatrico e il riconoscimento del suo essere persona e della sua dignità e del diritto alla cura.
E’ stato infatti riconosciuto storicamente che nei primi anni di utilizzo della TEC “questo metodo – economico, semplice nell’utilizzo ed efficace – venne adoperato in maniera acritica e ad ampio raggio”: “nell’ignoranza di allora circa i confini dell’ambito applicativo, la TEC veniva impiegata per quasi tutte le malattie psichiatriche, e anche per disturbi mentali senza chiara evidenza patologica” e i “pazienti con comportamenti vistosi, che disturbavano la quiete delle cliniche, venivano fatti calmare con la TEC” (ibidem).
I confini tra terapia e punizione non esistevano più; spesso s’interveniva sui pazienti anche senza quello che oggi chiamiamo “consenso informato”.
“Considerati gli standard attuali, l’utilizzo della TEC in quella fase fu senz’altro caratterizzato da un abuso considerevole” (ibidem).
Occorre inoltre ricordare i progressi della ricerca psicofarmacologica e della farmacoterapia che risalivano a pochi anni prima: nel 1952 viene introdotta la clorpromazina, il primo farmaco antipsicotico, e si scopre il primo antidepressivo triciclico, l’Imipramin.
Si cominciò a nutrire “la speranza di poter vincere la battaglia contro le malattie psichiche”; “l’atmosfera era euforica” perché “per la prima volta era possibile curare con medicinali delle malattie che fino a pochi anni prima erano considerate inguaribili” e la TEC “veniva comunque vista sempre più come antiquata e fortemente invasiva” (ib.).
Proprio in quegli anni il movimento antipsichiatrico, sostenuto dallo spirito antiautoritario dell’epoca, assume un peso crescente.
Filosofi, esperti e gli stessi psichiatri “mettevano in discussione le definizioni patologiche e le diagnosi allora dominanti nella psichiatria, il rapporto tra medico e paziente, le condizioni e anche la stessa legittimità dei manicomi di allora, oltre che la somministrazione degli stessi psicofarmaci.
In particolare la TEC veniva considerata disumana e di conseguenza osteggiata e, secondo alcuni interpreti, “finì per fare da parafulmine per tutte le correnti di pensiero antipsichiatriche” (Brugnoli, op. cit. 2013, 2017).
E’ in questo clima socio-culturale e di cambiamento scientifico e terapeutico che Basaglia pubblica nel 1967 il suo saggio forse più famoso, “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”.
Nel frattempo diventa direttore anche dell’ospedale di Colorno e di Trieste, e nel 1973, col diffondersi dei movimenti di anti-psichiatria, fonda “Psichiatria Democratica”.
La sua battaglia contro il sistema psichiatrico più tradizionale prosegue finché nel 1977 viene chiuso a Trieste l’ospedale psichiatrico e nel 1978 viene ratificata la legge 180, detta anche Legge Basaglia, che promuove un nuovo trattamento di cura dei disturbi mentali incentrato sul rispetto della dignità umana lontanissimo dalla legge del 1904.
Occorre peraltro ricordare che la situazione all’epoca è assai più frastagliata e complessa di quanto possa apparire a una prima lettura, come dimostra il caso di Mario Tobino, scrittore centrale del Novecento italiano – Autore de Le libere donne di Magliano (1953) e Per le antiche scale (1972) – e psichiatra che diresse l’Ospedale Psichiatrico di Maggiano in provincia di Lucca (lo ‘Spedale per i Pazzi di Fregionaia, località vicino a Maggiano, il manicomio più antico d’Italia) dal 1948, e che fin dal 1941 nella sua tesi di specializzazione sosteneva “la necessità di una rifondazione umanizzante della psichiatria contemporanea”.
Peraltro il “manicomio” assunse un ruolo sempre più centrale nella sua stessa opera letteraria sia come elemento chiave della narrazione che come costante motivo di riflessione (Treccani, 2019).
Egli, però, si oppose agli esiti negativi dell’applicazione della Legge che di Basaglia porta il nome, la Legge n.180 del 1978, che si proponeva di tradurre in pratica i principi ispiratori dell’opera dello psichiatra “carissimo nemico” di Tobino [2].
I manicomi all’epoca erano situati in una zona periferica delle città perché l’obiettivo era tenere questi “mostri” lontani dagli sguardi dei “sani” e i trattamenti di elezione, somministrati da medici e infermieri, erano prevalentemente le camicie di forza, i letti di contenzione, l’elettroshock, le lobotomie, le docce gelate.
Nella concezione di Basaglia, invece, il malato di mente andava visto nella sua interezza, nel suo diritto alla cura, un essere umano con una propria storia di vita, con emozioni, con un malessere che andava preso in carico, ascoltato in quanto tale; solo dopo questo percorso si poteva pensare di avviare un processo di cura.
Lo stigma del momento che circondava questi individui era invece totale.
Basaglia definiva il suo approccio “fenomenologico esistenziale”, influenzato e formato agli insegnamenti di Jaspers, Husserl, Binswanger, Sartre, Merleau- Ponty, Foucault.
Questa sua peculiare visione fenomenologico – esistenziale sarà la base su cui costruire la sua concezione di libertà ed entità corporea, che viene tradotta in una pratica clinica completamente nuova, centrata sulla trasformazione dei manicomi in comunità terapeutiche in cui i rapporti tra operatori e utenti non sono più verticalizzati bensì orizzontali; il personale sanitario ha pari dignità e diritti come i pazienti, e lo strumento privilegiato è la collaborazione paritaria perché il paziente psichiatrico non è un essere da emarginare e contenere.
La stessa terapia farmacologica divenne ai suoi occhi solo un metodo che permetteva una più veloce riabilitazione.
Nel 1971 avvia i primi laboratori artistici di scrittura, pittura e teatro, affinché venisse concessa ai malati una diversa modalità di comunicare il loro malessere, e per offrire loro la possibilità di trovare una differente e più costruttiva modalità di relazionarsi con se stessi e con gli altri.
Nascono così le prime comunità in cui svolgere lavori socialmente utili e condivisibili, con lo scopo di reintegrare nel tessuto sociale coloro che fino a quel momento erano stati banditi, derisi, discriminati, disumanizzati dalla “istituzione psichiatrica”.
Il lavoro di Franco Rotelli proseguì la messa in discussione dell’ortodossia psichiatrica operata da Basaglia e, nonostante il continuo ostruzionismo da parte degli ambienti accademici, la sua lotta allo stigma sociale non si fermò mai.
Nel 1973 a Trieste, all’interno del manicomio, da comuni esperienze creative di artisti, studenti, degenti e dalla capacità visionaria di Franco Basaglia, nasce Marco Cavallo, una enorme scultura mobile che divenne ben presto il simbolo della libertà e della possibilità di abbattere le mura dei manicomi.
Marco Cavallo è ancora oggi il simbolo della “rivoluzione psichiatrica”, è presente nel parco e viene esposto durante le manifestazioni.
Il Comprensorio di San Giovanni, oggi, non è più quel luogo fatiscente che avevo visto per la prima volta 30 anni fa.
E questa radicale trasformazione del Parco di San Giovanni la si deve proprio a Franco Rotelli, lo psichiatra principale collaboratore di Franco Basaglia e tra i protagonisti della Riforma Psichiatrica italiana.
Dopo il trasferimento di Basaglia a Roma (1979), su proposta di quest’ultimo, Franco Rotelli viene incaricato di dirigere il sistema dei servizi psichiatrici della provincia successivamente alla chiusura dell’ospedale psichiatrico triestino, avviando la realizzazione di servizi sanitari extra ospedalieri.
Nel 1998 viene nominato direttore dell’Azienda sanitaria triestina.
Sotto la sua direzione si realizza una rete di servizi interamente sostitutivi dell’Ospedale Psichiatrico, basata sui Centri di Salute Mentale aperti H 24, sette giorni su sette, con appartamenti protetti, case famiglia, laboratori artistici, culturali, teatrali.
Avvia le prime cooperative sociali per l’inserimento lavorativo delle persone con disagio mentale.
Nel 1986 fonda il Centro Studi e Ricerche di salute mentale, che diventa Centro Collaboratore dell’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
La riorganizzazione dei servizi di salute mentale di Trieste da lui operata darà dignità e credibilità alla legge 180, contestata ed osteggiata dalla politica e da diverse amministrazioni locali.
Come segretario del “Réseau Internationale di alternativa alla psichiatria” promuove e avvia dibattiti e convegni sulla salute mentale in diversi paesi, tra cui Spagna, Germania, Grecia, Jugoslavia, Giappone, Cuba, Argentina, Repubblica Dominicana, Brasile, Venezuela, criticando la psichiatria tradizionale, proponendo il superamento dei manicomi, e denunciando lo stato di abbandono e ghettizzazione dei malati mentali.
Nella sua riflessione e nel conseguente impegno si oppone al fisicalismo oggettivante secondo cui l’analisi psicologica deve basarsi sul comportamento oggettivo degli individui, misurabile e rilevabile con metodi obiettivi che permettano la ripetizione di esperimenti e interpretabile secondo lo schema stimolo-risposta.
E’ proprio grazie a lui se oggi il parco di San Giovanni non è più il ghetto che vidi bensì il luogo di cura che contempla in primis la dignità dell’essere umano.
Personalmente considero geniale Franco Rotelli.
Questa genialità della sua riflessione in cui teoria e prassi appaiono organicamente connessi l’una con l’altra appare evidente anche in interviste come quella intitolata “No ai manicomi, atti criminali in psichiatria” (27 agosto 2021).
“Quando Basaglia – afferma Franco nel corso dell’intervista – dice che cos’è il manicomio dice che cos’è la psichiatria.
Se la psichiatria è quella cosa che ha prodotto il manicomio allora che cos’è la psichiatria? Allora dai manicomi si risale alla domanda fondamentale su che cos’è la psichiatria e la risposta non è certamente positiva.
La psichiatria dovrebbe forse svolgere un ruolo molto più marginale di quello che svolge all’interno di un campo, in cui il vero problema è ‘Quali politiche e pratiche di salute mentale, per la salute mentale, si mettono in piedi’.
Politiche e pratiche per la salute mentale che poco vengono attivate dalla psichiatria e molto possono essere attivate da soggetti diversi, attraverso un coinvolgimento molto più vasto della comunità e il lavoro di destigmatizzazione, con il lavoro di riabilitazione, di inserimento sociale, attraverso procedure di inclusione sociale, attraverso procedure che sviluppino i diritti delle persone con fragilità psichiche.
Politiche cioè di sostegno, di ricostruzione, di emancipazione.” Secondo Franco, queste “politiche di sostegno, inclusione, emancipazione, non sono mai state molto nel cuore della psichiatria”.
“Non sono mai state molto dentro il sapere psichiatrico” perché “il sapere psichiatrico è sempre stato un sapere piuttosto prepotente, piuttosto arrogante, che non ha mai pensato in realtà ai diritti delle persone”.
Il potere psichiatrico “ha pensato alla malattia come a qualcosa che invadeva e inglobava l’individuo, in cui la persona spariva, la persona diventava il malato, il malato diventava l’oggetto in potere del medico, e diventava l’oggetto della conoscenza del medico.” Secondo lo psichiatra “tutta questa procedura, tutto questo modo di pensare la realtà della sanità è un modo sbagliato”: “è necessario rovesciarlo verso una politica di inclusione, di salute mentale, di rispetto dei diritti, laddove la libertà è terapeutica”.
Si devono quindi costruire una serie di condizioni dove le persone possono convivere, e le persone “possano trovare dei servizi con le porte sempre aperte, dove la porta sia aperta e la risposta ai problemi della gente, che sono tanti, venga data da soggetti plurimi, non solo da tecnici, e evidentemente non solo da tecnici psi”.
In questa ottica in effetti “sono molto importanti le cooperative sociali, le associazioni, le associazioni di familiari, le associazioni di fruitori di servizi, le organizzazioni del terzo settore, oltre che i servizi ben fatti dal punto di vista pubblico, che non guardano tanto alla malattia ma guardano alla persona, guardano a come difendere la persona dentro il tessuto sociale.
Queste realtà sono più a favore delle persone che stanno male di quanto non lo sia la psichiatria.” La lunga citazione era indispensabile per rendere ragione della complessità anche epistemologica della riflessione di Franco.
Complessità che si manifesta esplicitamente allorché egli afferma, sempre nella stessa intervista: “La psichiatria ha uno statuto epistemologico molto discutibile, molto debole. In realtà agisce come se sapesse tante cose, quando in realtà ne sa proprio poche. In qualche modo la medicina in generale è nata attorno al corpo morto delle persone. La medicina è stata uno studio sul corpo morto. Continua in qualche modo a creare un corpo morto e dal corpo morto trae i suoi saperi. Il problema della psichiatria è che noi agiamo su qualche cosa che non è oggettivabile.
La psichiatria ha un’ambizione sfrenata perché la parola stessa lo dice, medicina dell’anima, medicina della psiche, medicina della mente, cioè la medicina di qualche cosa che non ha un oggetto.
La medicina in generale ha comunque un oggetto.
In qualche modo la prepotenza della psichiatria è inversamente proporzionale al suo sapere.” E le affermazioni sulle terapie farmacologiche rendono giustizia della rappresentazione spesso caricaturale dell’anti-psichiatria che rifiuta in nome di astratti ideologismi gli strumenti ‘terapeutici’ a disposizione del sanitario: “Il farmaco lo usiamo (sic!) e pensiamo che possa avere una sua utilità per ridurre l’angoscia, ridurre la tensione che si accompagna allo star male delle persone. Hanno una funzione poco terapeutica ma sicuramente hanno una funzione di riduzione dei rischi, di riduzione dell’angoscia, della risonanza affettiva, dello star male delle persone.”.
Il guaio della psichiatria odierna è così riassumibile: “Presumiamo di poter conoscere l’altro in quanto oggetto.
Mentre l’altro, questa è la fattispecie, è un soggetto e non è un oggetto.
Con questo soggetto o ci confrontiamo attorno ai reciproci valori o non c’è nessun confronto.
Per il nostro mestiere il confronto è il cuore del problema ed è l’unico modo per avvicinarci all’altro, è l’unico modo per fare questo mestiere, confrontarsi con l’altro, negoziare con l’altro.
E per negoziare con l’altro, confrontarci con l’altro, dobbiamo dichiarare a che valori ci riferiamo, e su questi valori misurarci, discutere, e in qualche modo cercare di immaginare che i valori profondamente positivi di emancipazione, possano essere valori utili come riferimento per tutti.” Franco critica anche l’ideologia salutista oggi dominante: “Direi che la vita non è fatta solo di salute, è fatta anche di malattia. La vita c’è perché c’è la morte. Far finta che le cose non stiano in questi termini è veramente far finta. C’è poco da fare, le cose stanno così. Probabilmente se ne fossimo un po’ più consapevoli inevitabilmente eviteremmo tante prepotenze, eviteremmo di portare la morte agli altri. Credo che le guerre abbiano molto a che fare con questa questione di “Vita mia morte tua”.
“Dure sono le critiche a prassi che continuano a persistere nonostante i profondi cambiamenti nella cura del paziente: “Legare i pazienti dovrebbe essere un atto proibito. È una lesione dei diritti delle persone, della libertà personale della gente. E c’è una Costituzione che dice che soltanto il magistrato può emettere provvedimenti a riduzione della libertà della gente, non un medico. Perché il medico è autorizzato a limitare la libertà la gente? La nostra Costituzione non lo permette. Nessuna legge consente a un medico di limitare la libertà della gente. A meno della eccezionale emergenza e della straordinaria urgenza. Ma qui stiamo parlando di gente che viene legata giorni e giorni. Non stiamo parlando della situazione dell’autoambulanza o della misura nella situazione acuta o di un reparto di anestesia e rianimazione. Stiamo parlando di gente che viene programmaticamente legata. Ci sono queste prassi veramente demenziali di legare alla sera. Tutte le sere uno viene legato. Il giorno no, alla sera viene legato. C’è una programmazione della contenzione. Se questo non è un reato non capisco più niente né del codice né della Costituzione.”
Queste riflessioni sono in sintonia con quanto Franco è riuscito a realizzare sul piano della politica come attività amministrativa capace di profonda innovazione.
Infatti nel 2005, da Direttore dell’Azienda Sanitaria, dopo alcune esperienze pilota, avvia il Progetto Microaree con un accordo fra l’Azienda Sanitaria, il Comune e l’ATER (ex IACP – Case popolari).
Nascita della realtà territoriale delle Microaree
Occorre ricordare che Trieste è una delle città italiane con una situazione sociale molto particolare, dovuta all’elevata presenza di persone anziane, che spesso vivono sole in una condizione di isolamento e di difficoltà economica, a cui si aggiunge il costante incremento di cittadini stranieri, più spesso provenienti dall’Europa dell’Est, e che per lo più vivono in aree della città a forte concentrazione di alloggi di edilizia popolare.
I modelli famigliari del nostro tempo sono cambiati molto e crescente è il numero di famiglie meno numerose, spesso mononucleari, più instabili e con reti sociali sempre più frammentate.
È in questo contesto che nel 1998 nasce a Trieste la prima esperienza sperimentale di habitat-salute e di sviluppo di comunità, per far fronte in modo innovativo al disagio sociale.
Mentre in tutto il mondo continuano ad esistere le istituzioni manicomiali, a Trieste i manicomi sono stati soppiantati dalle Microaree, strumenti alternativi di presa in carico della salute non solo mentale della popolazione.
Attualmente in città ce ne sono diciassette (17).
Obiettivo primario delle Microaree è sviluppare un approccio proattivo ai problemi della comunità coinvolgendo piccole aree del territorio dove l’Azienda Sanitaria, il Comune e l’ATER (Aziende Territoriali per l’Edilizia Residenziale, prima IACP, l’Istituto Autonomo Case Popolari) collaborano allo sviluppo di “Comunità che generano Salute”.
Il “modello triestino” di approccio alla salute mentale rappresenta perciò il punto di riferimento per buone prassi sanitarie sia in ambito strettamente medico che specificatamente socio-psichiatrico.
Ciò si realizza nel concreto mediante la mappatura delle risorse e dei bisogni sul territorio, il che vuol dire andare casa per casa per parlare con gli abitanti, conquistarne la fiducia e identificare le reali necessità delle persone.
Significa quindi mettere in campo una “medicina del reale” che dipenda dalla capacità di osservare i bisogni sociali, culturali e sanitari della popolazione, rilevando le determinanti di salute per una medicina radicata nei luoghi, nelle case, negli habitat sociali della città, con particolare attenzione alle zone con un’alta prevalenza di edilizia pubblica e di famiglie a basso reddito.
Ogni Microarea ha quindi un’estensione geografica propria, che varia a seconda del contesto socio-territoriale, e presenta una sede centrale, punto di riferimento del quartiere, a cui fa capo un referente che coordina le attività, spesso segnalato proprio dalle stesse cooperative sociali e associazioni che operano sul territorio (e che non è necessariamente un sanitario).
In questo modo si creano delle micro-squadre che si occupano delle singole persone e del loro ambiente di vita, creando una rete di supporto locale.
Questo rende possibile una conoscenza diretta delle situazioni che necessitano di un intervento, per agire tempestivamente sui casi a rischio prima che la persona sviluppi una patologia da curare in un percorso istituzionale, oltre a rendere più accessibile e mirato l’uso dei farmaci e delle attività diagnostiche e terapeutiche.
La grande differenza è territoriale: si pensi ad esempio a quando un paziente ritorna alla propria abitazione dopo la dimissione dall’ospedale; sono gli operatori delle microaree che si occupano del suo reinserimento.
Le microaree sono idealmente dei passaggi intermedi, ovvero degli anelli che congiungono il territorio e l’azienda sanitaria nel contesto della città di Trieste.
Per fare un esempio, esse possono rappresentare l’anello mancante tra il paziente ossessivo rinchiuso in casa e lo psichiatra del CSM, il Centro di Salute Mentale a cui può fare riferimento.
Le Microaree sono quindi piccole aree della città che comprendono dai 340 ai 2200 abitanti ciascuna.
La Microarea perciò si configura come anello di congiunzione tra territorio e distretto sanitario, e anche come punto di ascolto per bisogni non solamente sanitari di quella zona specifica.
La mission del servizio quindi non è solo coprire i bisogni strettamente sanitari, ma anche quella di fornire un punto di aggregazione in cui convergano bisogni molteplici e più vasti, ruotanti intorno al concetto di “servizio sociale” e con operatori di formazione diversa (psicologi, educatori, assistenti sociale, medici).
Pur essendo calibrata su obiettivi molteplici, è possibile che ogni Microarea si ponga “obiettivi focali” rivalutabili di anno in anno (per esempio, il monitoraggio di situazioni croniche di malattia quali il diabete o le pneumopatie).
La natura della Microarea e il suo posizionamento consentono interventi di natura domiciliare, resi possibili dalla conoscenza diretta del territorio.
La Microarea triestina consente di cogliere con chiarezza la distinzione tra medicina ospedaliera e medicina territoriale.
La medicina ospedaliera, peraltro obbligatoria in grandi centri urbani dove la capillarizzazione delle cure diviene impossibile, consente una presa in carico del caso limitata ai confini del presidio ospedaliero.
Le Microaree utilizzano invece una metodologia sanitaria differente, incentrata sulla presa in carico globale del paziente, riducendo la sua “spersonalizzazione” nei percorsi di cura.
Si pensi, ad esempio, all’esperienza del ricovero ospedaliero spesso profondamente traumatica per il paziente, essendo vissuta come evento “discontinuo” in termini narrativi, difficilmente ascrivibile al “naturale ordine delle cose”.
Nella Microarea il referente ha un ruolo nevralgico perchè deve individuare le situazioni di fragilità e, insieme agli altri soggetti coinvolti, decidere qual è la migliore strategia da adottare caso per caso.
Un altro elemento non secondario è il Portierato Sociale, solitamente gestito da una cooperativa.
Il Portierato fa da tramite fra gli abitanti della Microarea e l’ATER anche nella gestione di alcune procedure amministrative.
Inoltre, diventa un punto di riferimento per gli abitanti.
Questi sono gli outcomes prodotti dall’adozione di questo modello: una riduzione significativa dei ricoveri urgenti ed un aumento di quelli programmati (per tutte le cause); una diminuzione degli accessi non prioritari al pronto soccorso; una riduzione dei ricoveri multipli; una diminuzione della metà dei ricoveri urgenti per psicosi; analogamente nel caso di ricoveri per patologie respiratorie.
Perché quindi il modello delle Microaree triestino, innovativo ma ampiamente validato e con ampi margini di sviluppo, sia nella salute mentale che territoriale, non può essere replicato altrove?
Note
[1] L’Accademia della Follia è una compagnia di teatro di “matti di mestiere e attori per vocazione” la cui direzione artistica è affidata a Sarah Taylor; si tratta di un laboratorio di artigianato teatrale giornaliero che lavora con il metodo di teatro Claudio Misculin. Il Laboratorio è tenuto da Antonella Carlucci (Regista) e Alice Gherzil (Cantante), in collaborazione con Sarah Taylor (Coreografa).
[2] Così scrive John Foot (2015) a proposito della posizione critica di Tobino: “(He) blamed numerous suicides on the 180 Law. He also saw mental illness as hereditary and genetic, and not linked to society. For Tobino the mentally ill had simply been abandoned to their fate. He wrote that ‘there is no alternative to the madhouse’. This debate exploded again after Basaglia’s death, in 1982, when Tobino published Gli ultimi giorni di Magliano (…).” [trad. nostra: Egli incolpò la Legge 180 dei numerosi suicidi. Interpretava la malattia mentale come ereditaria e genetica e non legata alla società. Per Tobino i malati mentali erano stati semplicemente abbandonati al loro destino. Scrisse che ‘non c’è alternativa al manicomio’. Il dibattito esplose ancora una volta alla morte di Basaglia nel 1982, quando Tobino pubblicò Gli ultimi giorni di Magliano (…).”]
Sitografia
- Accademia della Follia
https://www.accademiadellafollia-claudiomisculin.it/
Ultima consultazione 08.06.2023 - Associazione Franco Basaglia
https://asugi.sanita.fvg.it/it/schede/menu_azienda/associazionismo_terzo_settore/s_elenco_assoc/associazione_franco_basaglia.html
Ultima consultazione 08.06.2023 - Azzaro, A., Chi era Franco Rotelli
https://www.ilriformista.it/chi-era-franco-rotelli-psichiatra-e-intellettuale-e-stato-il-braccio-destro-di-basaglia-348642/
Ultima consultazione 08.06.2023 - Cogliati, M.G., Gallio, G., 2019
“La città che cura”, Trieste e le Microaree.
https://www.ilfogliopsichiatrico.it/2019/08/08/7894/
Ultima consultazione 08.06.2023
https://www.psichiatriademocratica.org/about-us/
Ultima consultazione 11.06.2023 - Rotelli, Franco
https://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Rotelli
Ultima consultazione 08.06.2023 - Rotelli, Franco, No ai manicomi atti criminali in psichiatria
https://viaggi-in-carrozzina.blogautore.espresso.repubblica.it/2021/08/27/franco-rotelli-no-ai-manicomi-atti-criminali-in-psichiatria/
Tobino, Mario, in Dizionario Biografico Treccani
https://www.treccani.it/enciclopedia/mario-tobino
Ultima consultazione 08.06.2023 - Tobino, Mario. “Il viareggino che amava i matti”, di Pardi, P.
https://www.quinewspisa.it/blog/le-pregiate-penne/il-viareggino-che-amava-i-matti-tobino-mario.htm
Ultima consultazione 11.06.2023 - Tobino, Mario, “Tobino e Basaglia, carissimi nemici”
http://www.fondazionemariotobino.it/content.php?p=not&nid=453
Trieste, le Microaree
Tratto da https://gliasinirivista.org/le-microaree-di-trieste/
Ultima consultazione 08.06.2023
Bibliografia
Basaglia, F. (1967), L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Milano, 2018
Brugnoli, R., Mazzarini, L., Girardi, P., Grözinger, M., Conca, A., Nickl-Jockschat, T., Di Pauli, J. (2013), trad. it. La Terapia Elettroconvulsivante. Un manuale per medici invianti e operatori, Pisa, 2017, D.E.
Foot, J. (2015), The Man Who Closed the Asylums. Franco Basaglia and the Revolution in Mental Health Care, London – New York, D.E.