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Home » Approfondimenti » La questione della psicoanalisi laica

La questione della psicoanalisi laica

20/09/2022 scritto da Jessica Ciofi

Molti giovani colleghi che mi leggono, non sanno bene di che si tratti, nè probabilmente io stessa ne avrei saputo granché se non avessi la ventura di avere un padre che oltre ad essere un collega è stato tra coloro che, pur dal punto di vista politico più che speculativo, di tale tema si è lungamente occupato. 

La questione è poco conosciuta dalle giovani e anche meno giovani generazioni perché da una parte si tratta di un tema estremamente scomodo e divisivo e dall’altra è stata sempre tenuta rigorosamente fuori dai luoghi della formazione universitaria. 

Perché dunque tirarlo fuori oggi? L’occasione è un congresso che si terrà a Padova il 23 e 24 ottobre a cui invito caldamente a partecipare, ma le ragioni, dal mio punto di vista, nella mia qualità di Presidente di una Associazione di politica professionale sono almeno 2. 

Una è di carattere culturale: ritengo che conoscere la nostra storia come professionisti sia fondamentale e la questione dell’analisi laica è una parte importante della nostra storia che affonda le sue radici negli stessi scritti di Freud, ma che diviene in Italia un tema politico nel momento della scrittura della 56/89 e successivamente nel momento della sentenza che decreta che la psicoanalisi è una psicoterapia. 

La seconda ragione è di carattere identitario. 

In queste ore al CNOP si riscrive il Codice Deontologico, parte fondante della nostra identità di psicologi, un momento importante in cui chiedersi: chi siamo? da dove veniamo? dove vogliamo andare? 

Ed ecco che a partire dalla prima domanda le risposte non possono essere che plurali e variegate, ma quanto plurali? Fino a quale limite si estende la nostra capacità, come categoria, di tollerare la pluralità? Le differenze, l’“altro” che è al contempo parte di noi e della nostra storia e fuori da noi?

Credo che la questione dell’analisi laica ci richiami a tali temi e credo anche che affrontarli collettivamente, farli emergere invece che relegarli nello spazio angusto della memoria di alcuni o addirittura destinarli all’oblio, sia un’operazione che ci può aiutare ad ampliare i nostri orizzonti, rileggere il passato per costruire un futuro che dia diritto di cittadinanza alle nostre numerose anime, anche quelle più scomode. 

Ma di che si tratta? Si chiederanno coloro che non sono addentro?

Proverò qui a fare una sintetica analisi della questione. 

Negli anni precedenti al varo della Legge Ossicini in Italia c’erano gli studiosi di psicologia sperimentale e clinica, che stavano nelle accademie e poi c’erano gli psicoanalisti che ne stavano quasi esclusivamente al di fuori, tranne qualche rarissimo caso. 

Per vent’anni come sappiamo, c’è stato il tentativo da parte dei primi di far riconoscere la professione, tentativo che arriva a compimento con la promulgazione della legge stessa. 

Una legge con molti difetti, ma pur sempre una legge istitutiva di una professione che raggiunge la dignità, avendo un suo ordine professionale, delle altre professioni ordinate e come tale acquisendo una serie di diritti e doveri (e possibili rivendicazioni sindacali). 

In quel momento avviene una spaccatura nel mondo della psicoanalisi italiana, da una parte, in molti corrono ad iscriversi al novello ordine e dall’altra, pur una minoranza, tiene fede a quanto scritto dallo stesso Freud: «L’uso terapeutico della psicoanalisi è soltanto una delle sue possibili applicazioni, e l’avvenire dimostrerà forse che non è la più importante. Sarebbe comunque ingiusto sacrificare a una sua unica applicazione tutte le altre, solo perché questo campo tocca la sfera degli interessi medici.1»

Emblematiche al riguardo le parole di Cesare Viviani citate in un interessantissimo articolo de “La Stampa” intitolato “La psicoanalisi imbavagliata”  del maggio 1989 che consiglio di leggere per intero: 

la psicoanalisi è malata, e gravemente, perché «ha ridato posto ai suoi tre nemici fondamentali: l’ideologia, l’oggettività, il senso comune». Spiega: “In questi cinquant’anni dalla morte di Freud, la psicoanalisi si è convertita alle prudenze e alle inerzie dei valori correnti, ha cercato accomodamenti e plausi, ha cristallizzato la sua teoria trasformandola perciò in ideologia». Invece con la psicoanalisi vera, rigorosa, si apprende a stare nella precarietà dell’esistenza; e per imparare a starci bisogna imparare a fare a meno delle sicurezze comuni, che sono il luogo stesso di nascita delle nevrosi. Le nevrosi sono la risposta angosciata alla precarietà, non la sua accettazione. La nuova legge sugli psicologi a Viviani appare allora come il punto culminante della malattia.

Gli stessi psicoanalisti se la sono cercata, questa legge. Inutile che strillino. Hanno disatteso la loro vocazione, poiché già da tempo si sono piegati al bisogno di «normalizzazione» espresso dalla società, un «morbo della garanzia» si è diffuso al punto che adesso è in gioco l’identità della stessa psicoanalisi’. Altro che semplice fatto burocratico: la nuova legge è il suggello statale allo svuotamento e al decorativismo dell’odierna psicoanalisi. Per questo la legge non riconosce differenze tra psicoterapia e psicoanalisi.“

Ma cosa intende dire Viviani? Quello che nel tempo sarà condiviso dal movimento di psicoanalisti che costituirà “Spazio Zero” che in estrema sintesi sostiene: la psicoanalisi non è una delle psicoterapie, la psicoanalisi è “altro”: una pratica formativa introspettiva. 

Da questa affermazione discende la considerazione che: essendo altro gli psicoanalisti non necessariamente dovrebbero avere una formazione di base come medici o psicologi nè dunque essere iscritti all’ordine dei medici o a quello degli psicologi (D’altra parte, un gran numero di psicoanalisti illustri hanno avuto e hanno formazioni del tutto diverse da quella di medico o psicologo: ad esempio Anna Freud non era laureata, Cesare Musatti era laureato in filosofia, Melanie Klein non era laureata, Erich Fromm era un sociologo, laureato in filosofia, ma si potrebbe andare avanti citando molti esimi docenti universitari contemporanei).

Questo perché, si legge nel “Manifesto per una psicanalisi laica”  “Una vera analisi, infatti, che possa eventualmente portare a diventare psicanalisti, può svilupparsi solo nella piena libertà del soggetto, senza alcun ‘padrone’, ‘super Io’, legge sociale o sintomo che sovrintendano all’analisi stessa. O meglio: la funzione dell’analisi è proprio quella di superare questi ostacoli che l’inconscio erige. Ma non solo: se così non fosse, se si ritenesse che il futuro analista debba essere (prima o anche) uno psicologo o uno psicoterapeuta, l’analisi del soggetto si troverebbe di fronte all’impossibilità di elaborare fino in fondo il proprio desiderio. Il cammino dell’analisi e della (possibile) formazione non ha un tempo prestabilito, non ha un titolo richiesto, non ha una condizione precedente, non ha un termine prefissato e nemmeno una fine certa, perché i tempi, i modi e i contenuti della scoperta dell’inconscio non potrebbero tollerare questi limiti ed entrano assolutamente in contraddizione con essi, costituendo resistenze, laddove l’analisi intende provare a svelarle. E’ l’analisi stessa, per ciò che è, che non può tollerare che un’istanza superiore (titolo di studio, riconoscimento, albo…) si intrometta all’interno del rapporto analista-analizzante”

Ora, se fino al 2011 quegli psicanalisti che si riconoscevano in tale descrizione, hanno potuto esercitare senza essere iscritti all’Ordine degli Psicologi e pagare le tasse svolgendo una professione non regolamentata, quella di psicanalista, in quell’anno la Corte di Cassazione con la sentenza n. 14408, ha espresso parere diverso: «Né può ritenersi che il metodo “del colloquio” non rientri in una vera e propria forma di terapia, tipico atto della professione medica, di guisa che non v’è dubbio che tale metodica, collegata funzionalmente alla cennata psicoanalisi, rappresenti un’attività diretta alla guarigione da vere e proprie malattie (ad es. l’anoressia) il che la inquadra nella professione medica».

Ma se sul piano giuridico la questione appare ormai chiara e servirebbe dunque una modifica normativa (modifica della 56/89 di cui peraltro si sente l’esigenza anche per ragioni di altra natura), sul piano identitario la questione rimane aperta. 

Gli psicoanalisti laici ad oggi, pur essendosi iscritti all’ordine per non incappare in denunce per esercizio abusivo della professione, vivono l’ordine come una gabbia assolutamente inadeguata e contrastante con gli insegnamenti degli stessi “padri della psicoanalisi” e personalmente ritengo che abbiano delle valide ragioni. 

Ma vedendo la cosa da un diverso vertice di osservazione mi chiedo: saremmo oggi disposti come categoria professionale a chiedere una modifica della legge e a riconoscere alla psicoanalisi la sua specificità che la colloca al di fuori delle psicoterapie e al contempo lasciare dentro tutti coloro che si sentono psicoterapeuti di orientamento psicoanalitico?

Fino a quale confine sappiamo spingerci nel rispettare la diversità? Nel riconoscere al “diverso” il diritto di essere tale, ringraziando per quanto ci arricchisce la sua presenza e al contempo non imponendogli una “normalizzazione”? Quanto fa parte della nostra identità tollerare la complessità? 

Spero di poterne parlare a Padova con molte colleghe e molti colleghi.. 

1 Sigmund Freud, Il problema dell’analisi condotta da non medici (1926), in Opere (vol. 10), Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 413

Categoria: Notizie dal CNOP

Jessica Ciofi

Psicologa, Presidente di Professione & Solidarietà, dirigente del MO.P.I. Mi occupo di politica professionale con vari ruoli sin dal 1994 (ben prima della laurea) e di Ecm dal 2004 come consulente di vari provider.


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