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Home » Approfondimenti » Le sentenze che fanno la storia della professione

Le sentenze che fanno la storia della professione

20/02/2022 scritto da Jessica Ciofi
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  • La questione dei confini è dunque presente da sempre.
  • La seconda questione invece è assolutamente rilevante perché apre una serie di temi su cui urge a mio avviso una riflessione collettiva.

La nostra professione ha di recente compiuto trentatré anni, ero bambina quando è stato istituito l’Ordine, ma ben ricordo le prime elezioni e le prime tensioni tra correnti diverse sui temi allora caldi, uno dei quali era certamente una questione di confini rispetto agli psichiatri.

Molti di loro ritenevano infatti che le nostre attività si sovrapponessero alle loro non vedendo la necessità di normare una figura come la nostra, loro potevano già fare tutto ciò che noi facciamo e qualcosa in più: somministrare farmaci.

C’è da tener presente che all’epoca lo psicologo era fondamentalmente sovrapponibile allo psicoterapeuta, gli psicologi ante legem erano prevalentemente laureati in filosofia, sociologia, pedagogia, magistero e poi formati “a bottega” da qualche grande maestro, spesso psicoanalista, quasi sempre medico.

Quasi tutti gli psicologi della prima ora, i pochi laureati in psicologia nelle poche facoltà nate da meno di un decennio si erano inoltre fiondati ad iscriversi nelle scuole di specializzazione ancor più neonate o almeno neo-riconosciute.

Eravamo lontani dalla psicologia del lavoro, dalla psicologia giuridica, dalla psicologia dello sport e anche dalla psicologia del benessere, alcune delle quali esistevano come materie di studio, ma non nel mercato del lavoro.

La questione dei confini è dunque presente da sempre.

Come da sempre la nostra storia è costellata di sentenze che modificano il corso degli eventi, non solo quelli legati ai colleghi ma soprattutto di quelli legati alla politica professionale.

Siamo oggi in presenza, a mio avviso, di entrambi gli accadimenti, da una parte una questione di confini, dall’altra una sentenza che punteggia la storia della professione.

Rispetto al primo punto la questione è lungi da avviarsi verso una soluzione perché nei fatti siamo ad uno stallo, la sentenza riconosce infatti che l’ambito normativo in cui si inquadra il counseling è quello della legge 4, ma non entra ovviamente nel merito.

Da una parte l’Ordine Nazionale e quelli regionali paiono compatti nel ritenere che la professione di counseling si sovrapponga a quella di psicologo e dall’altra il mondo del counseling va avanti per la propria strada, entrando nel Consiglio Direttivo della International Association for Counselling, in quello del Center for Studies of the Person, entrando nel piano regionale “Indirizzi operativi per il riconoscimento delle professioni dei centri per l’impiego della regione Abruzzo”, entrando tra le professioni reclutate attraverso il portale INPA.

Un po’ come dire che il mondo del counseling se gli psicologi non sono d’accordo con la sua esistenza se ne sta facendo una ragione.

La seconda questione invece è assolutamente rilevante perché apre una serie di temi su cui urge a mio avviso una riflessione collettiva.

Partendo dagli aspetti più specifici: le contestazioni che hanno portato alla radiazione delle colleghe sono l’art.8 “Lo psicologo contrasta l’esercizio abusivo della professione come definita dagli articoli 1 e 3 della Legge 18 febbraio 1989, n. 56, e segnala al Consiglio dell’Ordine i casi di abusivismo o di usurpazione di titolo di cui viene a conoscenza” e il 2 di conseguenza.

Sull’art. 8 il magistrato dice una cosa molto chiara: l’esercizio abusivo della professione è un reato commissivo previsto dal codice penale, che deve essere qualificato conseguentemente da un giudice, nei confronti di un soggetto specificamente individuato; la evidente ratio della norma deontologica è quella di porre a carico degli appartenenti alla categoria l’obbligo di denunciare fattispecie penalmente rilevanti di esercizio abusivo, ponendo in essere ogni azione tesa a contrastare tali forme di reato.

Potrà sembrare banale, ma fondamentalmente sta dicendo all’Ordine che per contestare la violazione di tale articolo è necessario che un magistrato abbia riconosciuto la sussistenza di un reato e non è sufficiente che una commissione deontologica si sostituisca alla magistratura ritenendo sulla base delle proprie convinzioni che la condotta tal dei tali sia assimilabile all’esercizio abusivo.

Di più, non è sufficiente dire che la condotta tal dei tali potrebbe portare a compiere il reato di esercizio abusivo, ma è necessario individuare un soggetto che sia la vittima di tale esercizio abusivo.

Sottolinea infine che tale articolo del codice deontologico è evidentemente finalizzato alla denuncia di “condotte penalmente rilevanti”… aggiungerei non a fare la caccia alle streghe o ad introdurre la legge del sospetto (che ricordo fu introdotta nel 1793 e abolita nel 1795 in seguito alla caduta di Robespierre).

Alla luce di ciò credo valga la pena di riflettere su alcuni temi: la deontologia è a mio avviso faccenda che ha a che fare a più livelli con una questione identitaria, sia con l’identità della professione che con l’identità del singolo, sia con l’identità di chi svolge la funzione di garante del rispetto delle norme deontologiche che con l’identità di chi viene accusato di averle infrante.

Lo svolgimento di questa vicenda mette in luce alcune di queste identità: abbiamo delle norme che consentono che accusatore e giudice siano lo stesso soggetto, abbiamo delle norme che consentono che a fronte di una richiesta motivata di ricusazione di alcuni componenti della commissione giudicante la richiesta possa cadere nel nulla.

Di più, abbiamo delle norme che prevedono che per contestare una sanzione deontologica si debba ricorrere in tribunale e non vi sia un organo interno a cui ricorrere.

Infine abbiamo un Consiglio Nazionale che a fronte di una sanzione così grave ed evidentemente sproporzionata non interviene in alcun modo di fatto avallandola.

Per chi si chiedesse cosa avrebbe potuto fare il CNOP la risposta sta nella sentenza che nel respingere il ricorso ad adiuvandum presentato da alcuni colleghi sottolinea: né tra gli intervenienti si annovera alcun ente esponenziale del gruppo professionale, dal che si può dedurre che laddove un ente quale il CNOP avesse voluto intervenire ritenendo che le azioni dell’Ordine del Lazio fossero potenzialmente lesive per la categoria, almeno in quella sede avrebbe potuto farlo.

E ancora per il livello di identità categoriale, abbiamo un Ordine che pare essere il primo a contravvenire alla seconda parte dell’Art. 4 del Codice Deontologico quando si parla del “rispetto di opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori”.

Vero che tale articolo si riferisce all’esercizio della professione nei confronti dei nostri clienti o pazienti, ma non si tratta forse di un principio che dovremmo rispettare a maggior ragione al nostro interno?

Come è potuto accadere che una Commissione Deontologica composta da psicologi che dovrebbero aver interiorizzato a livello di identità professionale soggettiva questo principio, sia arrivata a radiare delle colleghe per la partecipazione ad un tavolo di discussione in cui esprimevano un’opinione contraria a quella dell’Ordine?

Ma veniamo ora alla questione dell’identità di chi svolge la funzione di garante, ognuno ha evidentemente un proprio modo di interpretare tale ruolo, il che avviene in tutte le professioni.

Tuttavia, se genericamente le differenze individuali sono una ricchezza, nel caso specifico pare esserci una spiccata tendenza da parte dell’Ordine del Lazio ad immedesimarsi in un ruolo poliziesco, che spinge alla delazione (come si evince da alcuni webinar visibili sul sito dell’Ordine), al condurre veri e propri interrogatori che durano ore, al far partire decine di procedimenti disciplinari non motivati da segnalazioni ma andando a cercare potenziali rei, al radiare colleghe per “reati d’opinione”.

La mia idea di ruolo di garante del rispetto della deontologia è evidentemente distante da tale atteggiamento e assolutamente allineata con quanto viene sostenuto nella sentenza.

L’esercizio abusivo della professione è cosa assolutamente seria, se ne vedono gli effetti devastanti quando si ha a che fare con il fenomeno settario o con singole situazioni di vera manipolazione a fini di estorsione, a mio avviso per contrastarlo seriamente occorrerebbe essere a fianco delle forze dell’ordine e non cercare di sostituirvisi.

Allora mi chiedo e chiedo, potrebbe essere questa l’occasione di fare una riflessione collettiva sul significato del nostro codice deontologico e sulle sue modalità di applicazione?

Potrebbe essere giunto il momento di valutare se questo codice così importante per la nostra professione perché risponde in parte alla domanda “chi siamo?” effettivamente ci corrisponde e corrisponde anche all’immagine di chi vogliamo essere?

Mi auguro vivamente che questa triste pagina della nostra storia possa avere tale funzione.

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Categoria: Counselling

Jessica Ciofi

Psicologa, Presidente di Professione & Solidarietà, dirigente del MO.P.I. Mi occupo di politica professionale con vari ruoli sin dal 1994 (ben prima della laurea) e di Ecm dal 2004 come consulente di vari provider.


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